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La prevenzione del disagio psicologico
illustrazione di Maria Marta Bertolio

La relazione figlio-genitore omologo: prevenzione del disagio psicologico

Prevenire il disagio psicologico dei figli : lo strumento del “sentire” genitoriale

Cos’è questo sentire? È una competenza propria di ogni essere umano, è la capacità empatica, di immedesimazione nel mondo emotivo dell’altro, pur rimanendo se stessi. Può essere definita sensibilità, capacità di ascolto. Questa competenza è molto importante per la vita di ciascuno perché permette di decifrare, di comprendere una serie di comunicazioni dall’ambiente intorno a lui che non sono necessariamente di tipo verbale, e che riguardano soprattutto la sfera delle emozioni. Ad esempio il soggetto autistico, per dire il livello più grave di carenza di questa competenza, ha bisogno di continue informazioni ed esplicitazioni su quello che gli accade intorno, per potercisi muovere dentro.

Meno grave ma molto diffusa ultimamente è l’alessitimìa, una carenza a livello psicologico nel registrare e comprendere emozioni, proprie e quindi tantomeno altrui, con conseguenti complicazioni a livello relazionale facilmente immaginabili.

Quando si acquisisce questa competenza? Diversi autori (Winnicott, per dirne uno, ma anche Bowlby, così come Erikson) stabiliscono che questa competenza ha origine proprio all’inizio della relazione genitore-figlio: nella relazione chiamata primaria l’essere umano apprende cosa siano le emozioni attraverso il contatto fisico e l’affetto del genitore; con lo stratificarsi di sufficienti esperienze positive ( = ai suoi bisogni ottiene risposta) apprende innanzitutto che, qualsiasi emozione si possa provare, è qualcosa che all’interno della relazione, dell’abbraccio, del “contenimento” genitoriale, è qualcosa di tollerabile, di gestibile, di nominabile: apprende che le emozioni colorano la relazione, e che vale la pena di viverle. Questo gli permetterà di sviluppare a sua volta una capacità empatica, di comprendere cioè le emozioni dell’altro.

Il genitore ha capacità empatica? Gli stessi autori dicono che il genitore sviluppa naturalmente una capacità empatica a servizio del proprio cucciolo, per cui meglio di chiunque altro comprende quando il piccolo ha fame, piuttosto che freddo o sonno o mal di pancia. Questa competenza risulterà sempre speciale nei confronti del proprio figlio, anche quando questi non è più cucciolo. In particolare la mia formazione individua nelle due sensibilità materna e paterna un “rispecchiamento” diverso dei vissuti del figlio, a seconda se sia dello stesso sesso (si verifica un sentire più simile) o di quello opposto (si tratta di una complementarietà del sentire).

Conseguenza importante a questo enunciato un po’ teorico è che qualsiasi cosa senta la mamma (ad es: apprensione e paura) e qualsiasi cosa senta il papà (ad es: indifferenza e fastidio) non sono da considerare come una escludente l’altra ma da considerare insieme, per avere un quadro completo dei messaggi che lancia il figlio a livello non verbale (e di cui spesso non è consapevole per cui se gli si chiede “ma sei preoccupato? O “Sei arrabbiato?” lui grugnisce un no lapidario). Altra indicazione conseguente, non essere così certi che i propri figli sappiano con chiarezza cosa stanno provando: è il genitore che, come uno specchio, offre al figlio la possibilità di capirsi un po’ di più, perché gli riflette (rimanda) questi famosi stati d’animo. Da cui il figlio può aver bisogno di prendere le distanze…

Come si “declina” dunque quotidianamente questo sentire? Qui chiederei pareri ai partecipanti: avete mai provato a passare di fianco a vostro figlio e sentire improvvisamente tristezza o rabbia? Avete mai provato a sentire una emozione particolarmente intensa poco prima che rientri a casa da scuola, oppure nello stesso momento in cui il figlio apre la porta? È per via del legame emotivo (sicuramente sostenuto biologicamente) che condividiamo le emozioni dei nostri figli. La tendenza immediata è attribuirle in toto a noi stessi, mentre la prima indicazione che dò è questa: verificare che non siano emozioni in realtà appartenenti al figlio (o più al figlio che in effetti a noi), perché facilmente potrebbero esserlo.

Come fare? E perché? Se siamo d’accordo che “capire” i nostri figli significa fidarci che quello che sentiamo nei loro confronti ha molto a che fare con loro, col loro mondo emotivo, possiamo provare a nominare queste emozioni, a chiedere al figlio se per caso non le stia provando. Errore da non fare: spesso il genitore inizia a parlare delle proprie emozioni nella speranza che il figlio faccia lo stesso. Non accade quasi mai così: anzi è un ottimo pretesto per:

  1. criticarti e svalutarti
  2. attribuirti in toto stati d’animo suoi (proiezione invece di assunzione di responsabilità sui propri vissuti)
  3. sentirsi soli con i propri problemi, considerandoti troppo problematico per aiutarlo.

Per inciso il genitore non dev’essere necessariamente un Buddha totalmente risolto, perché la funzione genitoriale non richiede l’essere perfetti, quanto piuttosto (ovviamente oltre l’affetto) questa capacità di rispecchiamento.

Prevenire il disagio del figlio, allora, può significare utilizzare consapevolmente la propria capacità empatica per mostrare al figlio chi è, ogni volta che entra in relazione col genitore, come quando si mette davanti ad uno specchio (qui potei leggere il brano della storia infinita dove l’eroe deve affrontare la prova dello specchio). Non è detto che al figlio faccia piacere vedersi allo specchio. Ma il percorso per diventare grandi e forti passa da qui, dal riconoscere quello che si prova senza attribuirlo ad altri perché si può gestirlo, perché in questa fatica di figlio sarò sempre sostenuto dall’amore del mio genitore, che mi aiuta a diventare autonomo anche dal punto di vista della gestione dei miei sentimenti. E vedete che, parlando dell’amore genitoriale, siamo ritornati all’inizio: le emozioni sono gestibili, dice il genitore, “perché le vivi tra le mie braccia, perché anche quelle più difficili qui dentro passano, se ti affidi e ti fidi, perché io voglio aiutarti a diventare grande”.

Considerazioni

Ricapitolando:  cosa sento? cosa sente il mio partner? (alleanza genitoriale)

    • proviamo a rimandare questi contenuti al figlio (rispecchiamento)
    • questo aiuta il figlio a riappropriarsi delle proprie emozioni e a non temerle. Il sapere cosa si prova, nominarlo ed eventualmente non aver paura a chiedere aiuto è requisito fondamentale per affrontare e superare momenti di disagio: perché il vero disagio è L’ANESTESIA EMOTIVA cioè “scegliere” (ma non è una libera scelta) la strategia di non sentire le emozioni.
    • il genitore che vuole prevenire il disagio perché il proprio figlio sia realmente un figlio autonomo, deve aiutarlo a non difendersi eccessivamente o sistematicamente dalle emozioni, perché colorano ogni relazione e rendono la vita degna di essere vissuta.